La tela del ragno

Margareth aveva una vita piena di esigibili miglioramenti, ma aveva l’abitudine di lamentarsi dei proprio problemi, costruendoci intorno un’enorme aura di preoccupazioni ed inutili ansie. 

Quel giorno passeggiava con la sua amica Clara nel parco della città. Aveva in volto i sorrisi finti di chi simula una soddisfazione fin troppo esagerata da sembrar vera. Proprio mentre stava per sfoderare uno dei suoi sorrisi migliori, immerse la propria faccia in un’invisibile ragnatela, sagacemente tessuta tra due rami di alberi adiacenti. Dopo un urlo inpregnato di disappunto, iniziò a muovere confusamente le mani sul volto, per tirar via quella fitta tela dal naso. 

-Non me ne va mai bene una!- esclamò e il suo debole castello di carte della gioia inizió a scricchiolare, sotto il peso della falsità, finché non esplose e sbottó:

-Non è vero che sono felice, Clara, non è vero! Lo so, ho un marito splendido e due bambini meravigliosi, ma la vita da casalinga mi umilia. Ho gettato i miei studi al vento, i miei sogni e sono perennemente insoddisfatta-

-Mi dispiace…avresti potuto parlarmene prima-

-È difficile ammettere i propri fallimenti. La vita è un po’ come quella dannata ragnatela, vile e codarda, invisibile e pericolosa, attanaglia tutti i sogni che sono in volo, li blocca lì e li lascia irrealizzati. Lì muoiono e con loro la persona che li portava con sé-

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Con fare risoluto Clara rispose immediatamente: 

-Hai ragione sai, Margareth, ognuno di noi ha la sua ragnatela, chi con una trama fitta, chi con una larga e debole, tanto da far passare tutti i propri sogni, o quasi. C’è una cosa che dimentichiamo però-

-Cosa?-

-Se esiste un ragno quello siamo noi, non la vita. Siamo noi a costruirci sovrastrutture che annebbiano la mente e hanno la meglio persino sulla nostra volontà. Cosa desideravi fare?-

-Ho studiato per diventare avvocato. Mi sarebbe tanto piaciuto farlo-

-Cosa te lo ha impedito?-

-Sono arrivati presto i bambini, sai… Mi ero appena laureata e qualcuno doveva pur badare loro. Due gemelli, all’improvviso, dovevo pensare solo a loro-

-È la verità o questa è la ragnatela che hai tessuto per giustificare il tuo fallimento?- 

-Beh i bimbi sono arrivati, è innegabile-

-Ma avresti potuto cercare un lavoro, magari anche dopo averli svezzati?-

-Forse sì, non lo so-

-Quanti anni hai?-

-Lo sai, 28-

-Cosa aspetti, il tuo sogno non è morto, è ancora intrappolato nella tua ragnatela. Con un bel colpo di coraggio puoi romperle. Liberalo e lascialo volare-

-Ma…-

-Silenzio, ogni “ma” è un altro filo della ragnatela, ogni “e se” un suo nodo e così non smetterai mai di infittirla. Sii libera-

-Vorrei…-

-Vuoi e puoi-

La fenice che non voleva ardere

Maxwell era alla ricerca di un nuovo calamaio per l’inizio dell’anno scolastico. Tutti in città, se avevano qualche spicciolo in più nel taschino, si recavano da Mr. Ink, il massimo connubio di eleganza e funzionalità per articoli del genere.

Fu così che il ragazzo, dai capelli rossi e con il volto costellato di lentiggini, entrò nella bottega. Si avvicinò all’alto bancone di legno, dietro al quale regnava l’assordante silenzio dell’ora del desinare. Stese il braccio sull’alta struttura in frassino e diede due rapidi e decisi colpi al campanello lì presente. Attese qualche istante, ma nessuno si faceva vivo dietro al bancone. Ripetette il gesto per più e più volte, ma nessuno lo accoglieva.

Sentì dei rumori provenire dal retrobottega e decise di seguire la scia di quelle voci per trovare qualcuno che gli desse ascolto. Spostò una pesante tenda color cenere e si trovò davanti l’anziano Mr Ink:

-Salve giovanotto, non si aspetta al bancone?- disse con tono leggermente polemico

-L’ho aspettata a lungo signore, ho anche suonato il campanello- rispose

-In tal caso mi scuso. Come vedi ero impegnato con Bennu e il mio udito non è più quello di un tempo- inkwell-2698298_960_720

Soltanto allora il ragazzo si accorse della presenza di uno strano uccello su un trespolo, dal piumaggio lungo e sfumato dall’arancio all’oro. L’animale si grattava il dorso con il becco, in un movimento avvolgente e sinuoso.

Vedendolo sorpreso, Mr Ink disse al giovane Maxwell: -Cosa c’è? Non hai mai visto una fenice?-

-No, signore- rispose con un velo di timore.

-La fenice è un uccello eterno, risorge dalle proprie ceneri, ma il mio Bennu fa eccezione, non è vero piccolino? –

-Risorge dalle ceneri?-

-Esatto, massimo dieci anni di vita, prima di ardere in un bel falò, incenerirsi e riemergere tra il fumo e la polvere, piccoli e nuovamente vivi. Così dovrebbe funzionare, ma non per Bennu. Apparteneva alla mia famiglia, ha 80 anni e mille acciacchi, eppure non vuole ardere. Ogni tanto qualche piuma prende fuoco, ma lui la spegne col becco. Ha paura di rinascere, forse gli piace troppo questa vita. Tu cosa cercavi ragazzo?-

-Un calamaio-

-Un calamaio…come ti chiami?-

-Maxwell, Mr Ink.-

-Hai fretta Maxwell?-

-No, signore-

-In quel calamaio intingerai il tuo pennino e lascerai tracce indelebili, così come farai nella tua vita. Ciò che facciamo non può essere cancellato, però si può risorgere a vita nuova come una fenice, nell’esatto momento in cui decidiamo di cambiare. Non so perché ti faccio perdere tempo con queste strambe storie da vecchio, ma ti prego di riflettere su queste parole. Non essere mai come Bennu, non aver paura di ardere e di risorgere ad una nuova vita. Non aver paura di chiudere un capitolo della tua esistenza per scriverne uno nuovo. Dai sempre speranza a te stesso perché si può cambiare la propria vita. Intingi deciso il pennino in quel calamaio, traccia solchi carichi di nero inchiostro, poi rileggili, volta pagina e scrivi ancora, se non ti piacciono. Ardi e risorgi ogni volta che ne hai bisogno! Ho tanti anni e questo mi suggerisce la vita, caro Maxwell-

-Grazie dei consigli…-

-Sì, un calamaio dicevi. Seguimi-

Quel giorno Maxwell acquistò un calamaio nuovo e collezionò tante parole da portare nel bagaglio delle verità.

La casta dei topi

Ogni anno nel distretto 47 della fogna 13 si riunivano i topi di tutte le caste per discutere sui progetti annuali comuni.

Tra lo squittio continuo di litigi da roditori, si distinguevano topi di varie specie e ognuno cercava di portare l’acqua al proprio mulino, per le cause che più gli stavano a cuore.

Non tutti, infatti, vivevano nelle stesse condizioni. Il più agiato tra tutti era il topolino da compagnia. Cibo fornito dai padroni, ruota per giocare e l’unico cruccio di vedere il mondo dalle sbarre della propria gabbia, ma d’altronde, il benessere spesso tiene imprigionati i possessori.

Poi c’era il topo di fogna, il proprietario di casa, che dal canto suo rivendicava un maggior supporto nell’accrescimento della propria fama. Era il più robusto tra i topi, grande di taglia e dall’aspetto malaticcio per colpa di ciò che la fogna gli concedeva di mangiare. mice-2209388_960_720

Sull’altra sponda della fogna 13, tutti in fila sorridenti, si erano schierati i topi di campagna, felici di spassarsela in libertà finché qualche gatto o volpe non ne faceva il pasto di giornata.

Sullo sfondo, poi, tristi e solitari c’erano le cavie. Ad ogni grande comizio dei topi erano sempre diverse. Molte erano ancora così piccole da capire a stento dove si trovavano. Altre erano state lobotomizzate o avevano contratto malattie umane per la ricerca. C’era cavia James, ad esempio, che non riusciva a stare un attimo fermo.

In prima fila, invece, petto in fuori, c’erano i topi attori: Stuart Little, Jerry, Mickey Mouse con la signora Minnie, chef Remy, Gigio, Bianca e Bernie, Fievel, Speedy Gonzales, Geronimo Stilton e altri volti meno noti.

Insomma, ogni topo in quella fogna aveva le sue caratteristiche e profonde differenze dagli altri. Dai ricchi topi da copertina alle piccole cavie con  i giorni contati. Da chi  viveva nel buio della fogna a chi nella luce delle campagne, ma col rischio di essere divorati, fino ai nobili imprigionati, follemente persi nelle loro ruote.

Si sentivano squittire le richieste più varie in quel chiassoso comizio:

-Dignità allo sporco di fogna!-

-Basta ruote, vogliamo altri giochi in gabbia!-

-Fateci vivere, non tagliuzzate i nostri cervelli-

-Via i gatti e le volpi dalle campagne!-

-Più topi e meno uomini in tv!-

E tra un reclamo e l’altro le differenze salivano a galla come boe. In fondo è così per tutti, anche per gli umani. Ogni classe sociale reclama il meglio per sé nella cecità comune di chi non vede un’unica specie. Nell’impossibilità dei ricchi di capire i bisogni dei poveri e nell’invidia dei poveri nel capire l’umanità comune dei ricchi. Non esiste un uomo che sia uguale all’altro, ma esiste un concetto di essere umano che dovrebbe essere unico e mai lo è.

E così i topi continuavano a dibattere come uomini in una riunione condominiale, senza risolvere nulla, se non accorgersi che le differenze sociali esistono e non c’è metro che possa misurarle se non quello del sensato gusto di vivere solo ed esclusivamente la propria vita.

Se solo sapessi…

Nino aveva una età in cui iniziavano ad esistere i problemi, quelli che fino a qualche anno prima avevano risolto i grandi. Aveva l’età delle scelte, dei rimpianti, dei dubbi, dei primi amori e di pochissime consapevolezze. A quell’età Nino guardava tutti a muso storto, ma non era cattiveria, solo che per lui peggio di come stava non si poteva e si crucciava, si rodeva il fegato per questo e ogni giorno versava lacrime sul cuscino prima di dormire.

Un giorno viaggiava in metro, per raggiungere il centro, come spesso faceva. Era impossibile non incrociare gli sguardi degli altri in un posto così affollato e a Nino dava fastidio. Voleva stare chiuso nei suoi pensieri negativi e crogiolarsi in quel dolore. Tra gli spintoni della metro urtò per sbaglio il bastone da passeggio di un anziano. Nino era scontroso, ma estremamente educato e immediatamente disse:

-Mi scusi signore, non volevo…-Milano_metropolitana_Villa_San_Giovanni

-Non si preoccupi giovanotto, c’è così tanta gente qui dentro che è impossibile cadere- rispose scherzosamente.

Nino accenno un sorriso, ma era così falso che a confronto il bacio di Giuda poteva sembrare vero. Fu per quello che l’anziano col bastone gli chiese:

-Giornata storta ragazzo?-

-No, signore-

-Come ti chiami?-

-Nino-

-Sai, anche io ho avuto la tua età. Tutto è triste e buio e non c’è niente che possa andare peggio, non è vero?-

-Sì, signore…- rimangiandosi le parole di qualche istante prima.

-Hai visto qui quante persone ci sono? Scegline una e guardala negli occhi-

-Perché?-

-Fallo e dimmi cosa ci vedi-

Iniziò a fissare lo sguardo di una donna che teneva un bambino per mano e in braccio un neonato in fasce.

-Chi guardi?- chiese l’anziano curioso.

-La donna con i due bambini-

-Che le leggi negli occhi?-

-Che ha una famiglia e ha realizzato ciò che voleva, quindi senz’altro ha più motivi per sorridere rispetto a me-

-E se fosse vedova? E se quei figli dovesse crescerli da sola? Il cappotto del bambino ti sembra di prima mano? Oppure in questa metro credi che nessuno abbia un problema?-

-Anche io ne ho uno e non è da meno-

-Assolutamente, hai ragione, ma dici bene: “anche” tu. Ti sei mai soffermato a fissare lo sguardo della gente che ti circonda? A guardare la loro camminata, le rughe sul viso e la curva delle labbra? Guardandoti intorno, probabilmente ti accorgerai che non esiste una persona priva di problemi, che non si è soli, l’importante è affrontarli con coraggio e dignità. Tira su quel capo e affronta i tuoi problemi, non è facile, ma non impossibile. Pensa che tocca farlo a tutti, non solo a te-

-Ha ragione signore, il giorno in cui imparerò a comprendere l’altro dal suo sguardo, avrò risolto metà dei miei problemi, perché essi nascono dal confronto con chi credo che stia meglio di me-

Disegnate il tempo

Era una giornata di scuola qualunque e la maestra Margherita chiese ai bambini di immaginare il tempo e di disegnarlo.

I piccoli allievi, incuriositi dall’idea, si misero immediatamente all’opera. Dopo circa mezz’ora avevano completato tutti il loro lavoro.

Molti lo avevano tratteggiato come un anziano con la barba lunga e la maestra incuriosita chiese:

-Perché il tempo vi ricorda un uomo anziano?-

Dopo aver alzato la mano, un bambino rispose:

-Perché esiste da tanto, da sempre, non può che essere vecchio-

-Bella risposta, e tu, Lidia, cosa hai disegnato?-

-Un orologio-

-Questa è abbastanza semplice da capire, cosa può descrivere il tempo meglio dello scorrere delle lancette?-

-Michele e tu?-

-Io ho disegnato un fiume, perché scorre via come il tempo-

-Risposta molto poetica e filosofica, bravo, il fiume è un’ottima rappresentazione-

-Avanti, continuiamo, tu Mattia?-

-Una vecchia radio, perché ci si può sintonizzare su varie frequenze, come quando si viaggia nel tempo-

-Risposta fantasiosa, ma interessante-

-Sergio, tu?-

-Maestra io ho disegnato una banconota-

A quella risposta tutti iniziarono a ridere, perché non trovavano il nesso con quella rappresentazione.

-Perché Sergio, a cosa hai pensato?-

-Si dice che il tempo è denaro…- e le risate continuarono più di prima.

-Bambini!- urlò la maestra Margherita per riportare l’ordine.7214596024_61f5493f1f_b

-Forse senza volerlo, ma Sergio ha dato una delle migliori rappresentazione del tempo. Il tempo è la moneta con cui acquistiamo ogni giorno della nostra vita. Pensateci, senza soldi non potreste comprare quegli astucci che avete sui banchi o i vestiti che indossate. Allo stesso modo, senza tempo non vivremmo, è il prezzo da pagare per vivere. Come ogni somma di denaro che si rispetti, ognuno di noi ne possiede una quantità limitata, un patrimonio più o meno ricco che nessuno conosce a priori. Quando finisce il nostro tempo finisce la nostra vita, ma la moneta continua a circolare per l’eternità nelle tasche degli altri. Per questo, come i vostri genitori vi suggerirebbero di non sperperare del denaro per cose futili, io vi dico: usate bene il vostro tempo. Abbiate la saggezza di sfruttare nel modo migliore la vostra dote limitata. Per tutti, la vita ha lo stesso prezzo, ma ognuno di noi può aumentarne il valore. Ragazzi miei, vivete con coscienza.

Ad ogni modo avete fatto tutti un ottimo lavoro, fate pure pausa ora, ve la siete meritata-

 

Non chiamatela malattia

Aveva la barba folta e bianca e in testa molti più capelli di quanto ci si potesse aspettare per la sua età. Piero era un uomo che aveva avuto tanto dalla vita, ma da tempo lo consideravano malato.

Era stato in cura da diversi medici e ognuno propinava le proprie teorie ed eventualmente, somministrava i farmaci che credeva opportuni. Piero non faceva altro che ricordare i tempi che erano passati. Ricordava i viaggi con la moglie Bice, la fatica del lavoro nella campagna, i gesti d’amore, i sacrifici per i figli e li raccontava ogni giorno, a chiunque avesse la pazienza di ascoltarlo. A quella malattia non avevano dato un nome, eppure cercavano di curarla in ogni modo, come fosse un ossessione di voler tornare a momenti che appartenevano al passato.

Un giorno, su una panchina del parco, incontrò un uomo della sua stessa età, impegnato a leggere il giornale.

-Cosa dice la cronaca oggi?- chiese Piero nel tentativo di introdursi nel discorso.

-Solite storie, c’è chi ruba credendosi furbo, chi ruba immaginandosi ricco, chi ammazza in guerra e chi in casa propria. Niente di diverso dalle pagine di ieri-

-Sono tempi diversi, all’epoca nostra era tutto più tranquillo-

-Dipende cosa intende per tranquillità. Ormai siamo vecchi e i nostri acciacchi ci limitano nelle azioni, ma anche la nostra generazione ha fatto il suo-

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-Gli acciacchi…già. Mi dicono che sono malato, ma non capiscono come definire la mia malattia. Mi danno medicine che non servono e fanno discorsi che non riesco a capire-

-Mi dispiace tanto…comunque piacere, mi chiamo Armando-

-Piacere mio, Piero-

-Di cosa si tratta?-

-Sa, mi piace ricordare il passato. Ammetto che lo faccio di continuo, ma a chi faccio del male? Mia moglie è l’unica che mi capisce. Grande donna lei. La conobbi che era bellissima: i capelli ricci, castani e gli occhi chiari. Anche ora è una donna meravigliosa. Ricordo ancora di quella volta che nel parco ci mettemmo a tirare a canestro e accidenti se era più brava di me. Piccola piccola, ma che tiro che aveva. Oppure di quella volta che salimmo su, al castello e c’era un vento pazzesco. Tutti quei ricci erano in balia dell’aria e le scattai una foto proprio mentre i capelli le si alzavano sul capo come risucchiati da un’aspirapolvere. Che risate che ci facemmo…-

-Non voglio interromperla signore, ma sta esattamente raccontando ancora del suo passato-

-Ha ragione, ma è la malattia sa. Non me ne rendo nemmeno conto. Come quella volta che iniziai a parlare a mia moglie Bice di un fatto avvenuto a scuola, ma fui talmente prolisso che mi implorò di smetterla, perché desiderava dormire-

-Signor Piero, lo ha fatto ancora…-

-Ha ragione, mi perdoni…mia madre mi diceva che soltanto al telefono ero di poche parole. Sa, quando ero via per il militare i tempi erano ristretti. Avevamo giusto il tempo per ricordare a vicenda che voci avevamo-

-Signore…-

-L’ho fatto ancora lo so, accidenti…-

-Se posso permettermi di dirle una cosa signor Piero, io non sono un medico, ma la sua non è una malattia. Io credo che l’unica “malattia” di cui lei soffra si chiami nostalgia. La nostalgia è perdersi nei bei ricordi per poi sbattere contro il muro della realtà accorgendosi, in lacrime, che qualcosa è cambiato. Non deve averne paura, la nostalgia è un sentimento comune. Lei forse è semplicemente più nostalgico della media, ma lo ha detto anche lei: che male fa?-

-Lei dice, Armando?-

-Certo! I medici che medicine le danno?-

-Integratori, rilassanti, cose così, ma tanto i ricordi me li potrà togliere soltanto la vecchiaia o la morte-

-Allora non abbia paura, non ha bisogno di un medico. Se ha voglia di raccontarmi qualche altra storia l’ascolto. Magari verrà voglia anche a me di confidargliene una-

-In effetti, mi ricordo di quella volta…-

E così continuarono a scambiarsi memorie su quella panchina per ore, perché la nostalgia si cura soltanto così, tenendo vivi i ricordi che vivi ci hanno fatto essere.

Il pescatore che si dimenticò di vivere

Camminava per il paese sempre con gli occhi bassi e la coppola in testa, una giacca marrone a scacchi e un pantalone di velluto dello stesso colore. Ormai lo conoscevano tutti in paese. Lo chiamavano Gino, ma nessuno sapeva come si chiamasse davvero

Per la verità, per molti era Gino lo smemorato, perché aveva perso la memoria di qualsiasi cosa, persino del suo nome. Molti lo salutavano, perché era un personaggio che faceva tenerezza e generava un naturale senso di affetto.

-Salve Gino, come va oggi?- e lui, abituato, ormai a sentirsi chiamare così, rispondeva:

-Solita storia, si sopravvive-

Non aveva un’occupazione e viveva di ciò che la gente gli regalava. Il panettiere gli dava ogni giorno un tozzo di pane e tra le grazie del salumiere e di qualche altro negoziante, viveva, in una capanna vicino al lago. Un giorno un pescatore, vedendolo passeggiare vicino alla sua capanna gli disse: -Sai pescare Gino?-

-Non mi ricordo, a dire il vero-

-Ti va di provare?-

-Non credo di esserne capace-

Indifferente della risposta, gli porse la canna da pesca e gli diede alcuni consigli su come maneggiarla: -Adesso tocca a te, fammi vedere che sai fare Gino!-

La maneggiava con una maestria che non era da principiante ed ebbe subito la fortuna di pescare una carpa di notevoli  dimensioni. Allora, stupito il pescatore gli chiese:

-Sei proprio sicuro di non aver mai pescato?-

-Non mi ricordo…-

-La tua capanna somiglia tanto ad una rimessa per le barche, magari eri un pescatore. Non ricordi niente? –

-Niente di niente-

Gino si ritirò nella sua capanna, mentre il pescatore risalì una piccola collina per raggiungere la strada. Sentì un rumore tra le frasche e vide spuntare due occhi luminosi. Poi il silenzio. Lì dietro si nascondeva qualcuno.

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-Chi si nasconde lì?- chiese tra il coraggio e il timore

Uscì fuori una donna anziana, con i capelli legati e vestita di stracci.

-Perché ci spiava?-

-Mi perdoni signore, di tanto in tanto vengo a controllare come sta il signor Alfieri. Mi chiamo Elena-

-Il signor Alfieri?-

-Sì, il pescatore che pescava con lei-

-Gino? Gino lo smemorato?-

-Che sia smemorato non c’è dubbio, ma si chiama Emanuele. È una storia lunga-

-Ho tutto il tempo per ascoltarla-

-Il signor Alfieri era un pescatore, aveva una casa poco lontano da qui e questa era la sua rimessa delle barche. Aveva una moglie, si chiamava Amelia. La amava da morire, ma circa dieci anni fa è morta. Io ero la loro vicina di casa, vedova già all’epoca, e nell’ultimo periodo sono stata molto tempo vicino alla signora Alfieri-

-Come mai Gino…cioè Emanuele ha perso la memoria? –

-Non ha mai superato la morte della moglie. All’inizio ancora le parlava, qui al lago, mentre pescava. Poi ha smesso di parlarle e in generale di vivere. Io credo una cosa signore: un uomo che ha sofferto oltre il limite del sopportabile, non perde la memoria di qualcosa, ma si dimentica soltanto di vivere. Come vede sa ancora pescare e sono convinta che con il giusto aiuto potrebbe recuperare. Quando mi ha vista, a volte, mi ha cacciata via, forse gli ricordo la moglie, per questo ero nascosta dietro al cespuglio. Nessuno sa questa storia, forse avrei dovuto raccontarla o forse non avrei dovuto farlo nemmeno con lei, ma ora che sa, lo aiuti, gli ricordi che può ancora vivere-

Il pescatore ascoltò quelle parole quasi commosso e rispose alla signora Elena:

-Signora Elena, avere una canna da pesca in mano è solo una scusa per ritagliarsi un momento di ricordi. Le assicuro che aiuterò Gino a tornare Emanuele, a ricordarsi che esiste la vita e ha tempo e spazio per viverla, con la sua canna da pesca e con i suoi ricordi-

-La ringrazierò a vita se ci riuscirà. Grazie umile pescatore-

 

Una partita a scacchi con la vita

Erano seduti a tavolino, Uomo e Vita, l’uno davanti all’altro. Tra di loro un piccolo tavolino di frassino ed una scacchiera di marmo. Vita prese per prima la parola e disse:

-Questa è una scacchiera particolare, Uomo, hai la possibilità di schierare su di essa chi desideri. Sceglierai tu chi sono i tuoi scacchi. Per cominciare, ovviamente, tu sarai il re- e mentre finiva di pronunciare quella frase, lo scacco di marmo bianco prese le sue sembianze e così fece anche quello nero.

Superato un principio di meraviglia, Uomo chiese: -Perché anche il tuo re ha assunto le mie sembianze? –

-Hai mai visto, per caso, una scacchiera con due set di scacchi diversi?-

-Hai ragione- rispose corrucciando il viso

-Ora ti tocca scegliere tutti gli altri scacchi-

-Cioè? Devo associare una persona ad ognuno?-

-Esattamente, cominciamo dalla regina-

-Beh, la regina è mia moglie, senza dubbio- e, ancora una volta entrambi gli scacchi corrispondenti assunsero le dovute sembianze.

-Perfetto, ora scegli due alfieri. Negli eserciti, all’alfiere era consegnata l’insegna; a chi daresti la bandiera della tua vita per rappresentarla?-

-A mio fratello e a mia sorella, loro la saprebbero portare con onore-

-Eccellente, proseguiamo con i cavalli. Sono animali agili, in grado di farti superare gli ostacoli che ti si pongono davanti nella vita-

-Allora opterei per i miei due migliori amici, loro mi hanno sempre aiutato ad andare avanti nei momenti di difficoltà-

-Magnifico, e per le torri? Le torri possono proteggere il re in caso di attacco. Sono sempre un rifugio sicuro-

-Senza dubbio i miei genitori, sono loro il mio rifugio sicuro, su di loro posso sempre fare affidamento, in qualsiasi momento della mia vita- e le trasfigurazioni, intanto, proseguivano

-Siamo giunti alla fine, i pedoni. I pedoni sono ben otto, e sono quelli che per primi vengono sacrificati in battaglia-

-È difficile trovare nella quotidianità chi sia disposto a dare la vita per te, ma oltre i miei due cavalli ho altri ottimi amici. Sicuramente combatterebbero al mio fianco, anche se non hanno l’agilità di un cavallo-

-Lo schieramento è completato, ma prima di cominciare vorrei invitarti a riflettere su una cosa. Se cominciassimo la nostra partita potrebbe benissimo capitare che i tuoi migliori amici mangino “ad L” uno dei tuoi genitori, una torre. O potrebbe capitare che tuo fratello, l’alfiere bianco, colpisca sua mamma, la regina nera. Insomma, questa scacchiera è fatta dei tuoi affetti, ma duplicati ed è questo che permetterebbe scontri del genere. Capisci cosa intendo? – chess-king

-In realtà non ho ben compreso dove vuoi arrivare, Vita-

-Voglio dire che nella vita è sempre necessario avere un’unica direttrice. Sei venuto da me chiedendomi come si può vivere serenamente. Ecco, si vive serenamente senza creare doppioni. Un doppione di te sarebbe un te mascherato, una moglie doppione sarebbe qualcuna che immagini e che è diversa dalla persona che hai accanto e devi accettare nei pregi e nei difetti. E vale per tutti gli altri. Noi spesso, nella nostra mente idealizziamo un alter ego delle persone che vogliamo bene, per dipingerle esattamente come vorremmo che fossero, ma ciò è sbagliato. Gli alter ego finiscono per scontrarsi, come sulla nostra scacchiera e la scacchiera è la nostra mente e in essa non rimarrebbe che un’immensa confusione. Vuoi essere sereno? Accetta ogni persona importante per quello che è, senza pretendere di crearne una identica, ma priva dei suoi difetti-

-Ho capito Vita, questa partita a scacchi è meglio non giocarla è piena di alter ego-

-Una partita a dama? Che ne pensi? Lì le pedine sono monotonamente uguali- disse con il sorriso sulle labbra.

-Vada per la dama- concluse felice Uomo.

 

A cottura lenta

Come ogni domenica, nonna Teresa si era rimboccata le maniche e aveva dato inizio al rito del ragù. Carne, sedano, cipolle, carote, vino bianco e tanta, tanta pazienza.

Rita, la nipote di nonna Teresa, ammirava puntualmente questo rituale e tra sé e sé rifletteva sull’infinita pazienza che quel pasto richiedeva.

-Cucinare non fa per me, nonna cara, io la pazienza non ce l’ho nemmeno con la vita-

-Il ragù è così, cottura lenta e ti insegna l’arte della pazienza. Finché non lo senti scoppiettare in pentola sai che devi aspettare, un po’ come la vita che, dopo tanta attesa, ti consegna la bella novella-

-Dici che ci vuole più pazienza con la vita o col ragù?-

-Secondo me col ragù. La vita è varia, ti offre mille opportunità, mille situazioni e tante possibilità di viverla. Il ragù sta lì, cuoce, fermo nel suo pentolone-

-Anche stando immobile però diventa saporito, la vita non è così: se non ti dai da fare non ottieni nulla- download

-Hai ragione bella di nonna, ma la fatica che precede l’attesa l’hai dimenticata? Tagliare le verdure, occuparsi della carne, fare la spesa adeguata, insomma, mica una passeggiata. Così è la vita, dopo tanta frenesia può arrivare anche il momento in cui è richiesta soltanto pazienza, una cottura lenta per intenderci-

-Un esempio?-

-L’amore ad esempio. Quante volte lo si cerca con smania e poi arriva proprio mentre sei in un attimo di stallo, senti scoppiettare il cuore come il ragù e quello è il momento buono-

-Vuoi vedere che questo ragù diventa maestro di vita?-

-Piuttosto la cottura lenta direi-

-Ah quindi diciamo che con una costina di maiale al forno vale lo stesso discorso?-

-Esattamente, purché la cottura sia lenta-

-A che punto è il ragù?-

-Ci vuole ancora tempo, ma pur sempre meno di prima-

-Anche questa è una lezione di vita?-

-Se vogliamo sì: quando si è costretti ad aspettare ci si dimentica che ogni istante si deve aspettare un momento in meno. Se la pensassimo così vivremmo con meno agitazione addosso-

-Hai capito quante cose insegna la cucina- disse con un tono ilare Rita.

-Insegna anche che dovresti metterti tu ai fornelli, imparare l’arte della pazienza e ripeterlo tante volte, così imparerai la ricetta e darai una mano alla tua vecchia nonna. –

-Ma una volta l’ho preparato!-

-Ripetere giova e la pazienza cresce-

-Anche il mio ragazzo mi dice che non ho mai pazienza e si finisce per litigare-

-Anche in quello la pazienza e la ripetizione aiuta. Se si litiga spesso si impara ogni volta a fare la pace. Come la cucina vedi! Se sbagli spesso il tempo di cottura imparerai ad avere la pazienza di aspettare il tempo giusto-

-Beh ora basta con queste metafore nonna. Quanto manca?-

-Tranquilla, è pronto, chiama gli altri a tavola che si mangia-

-Signori! Il ragù è servito!-

I capricci della Luna vanitosa

Era da tempo che la Luna aspettava di essere ricevuta da re Sole. Si fece accompagnare dal grande carro e fu accolta dalla stella polare, che la condusse dal re.

-I miei omaggi re Sole –

-Salve Luna, come mai da queste parti?-

-Ci sono un po’ di discussioni che abbiamo lasciato in sospeso. In quanto re, dovrebbe badare al benessere de suoi sudditi e io mi sento perennemente insoddisfatta!-

-Cosa ti renderebbe insoddisfatta, Luna?- chiese il Sole con fare annoiato, come se si aspettasse già cosa gli stava per giungere alle orecchie.

-Tanto per cominciare, io la ringrazio immensamente di farmi luce per rendermi bella e illuminare la notte degli umani, ma perché non posso avere luce propria?-

-Perché sei un satellite, non una stella, è la tua natura-

-Che seccatura, almeno potrebbe evitarmi di ridurmi in spicchi o di farmi scomparire di tanto in tanto? –

-Sono le tue fasi Luna, come una donna umana, anche tu hai i tuoi momenti-

-E il fatto dei mari? Come la mettiamo? “I mari lunari e bla bla…” e intanto non ho un goccio d’acqua. Sulla terra i mari hanno l’acqua, ne voglio anche io!-

-Gli umani li chiamano mari lunari solo perché sono aree estese e dello stesso tipo di roccia, dello stesso colore, per somiglianza ai loro oceani li chiamano così, ma non hai acqua. Però gestisci le maree, non ti soddisfa?-

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-Magra consolazione caro re Sole-

-Fai da sfondo ai baci degli innamorati e alle cartoline più belle-

-Questo sì- disse con un mal velato orgoglio stampato in viso.

-Altre lamentele Luna?-

-I crateri, insomma, non sarei più carina tutta liscia?-

-Ne dubito e ad ogni modo l’uomo è approdato sulla tua superficie e quei crateri gli sono piaciuti-

-Lasciamo stare, che ancora orbito con quella bandiera conficcata come un tramezzino ad una festa di compleanno-

-Bene, ora abbiamo finito Luna?- disse quasi scocciato dell’inutile discussione.

-Non ancora caro sire. Dalla Terra vedono perennemente la mia stessa metà, sono forse brutta dall’altro lato?-

-Luna, io voglio il tuo bene, illumino la tua metà più bella. Nascondo quella fatta di questa inutile vanità e di polemiche. Tutti quanti hanno una metà buia, sai? L’abilità sta nel rendere quella parte sempre meno invadente e mostrare con orgoglio i propri pregi. Questo non vuol dire dimenticarsi della metà buia, perché anche i difetti sono belli e caratterizzanti, se tenuti sotto controllo. Semplicemente devi essere fiera di ciò che di te è in luce, ma questo non è solo un problema tuo.

Ci sono un sacco di uomini spaventati dai propri difetti, che rischiano di illuminare una parte così piccola di loro da diventare irreali, mascherati e irriconoscibili. Tutti ti conoscono per il tuo emisfero illuminato, ma tutti sanno che hai una metà buia, eppure continuano ad amarti. Questo è il bene, apprezzare i pregi e comprendere i difetti. Tutto chiaro?

-Penso di sì re Sole…- disse in un principio di convincimento

-Bene, tanti saluti Luna, mi raccomando oggi è plenilunio, fatti bella-

-Come sempre! – sogghignò con fare spiritoso.